Ferita complessa

“Caro Signor Rossi, la sua ferita non guarisce perché lei la tiene troppo coperta, essa ha bisogno di aria fresca magari di sole, anzi le consiglio di togliere la medicazione e di esporla al sole, si metta in terrazza, prenda il sole e vedrà che miglioramento….” Parole del Dr. XY

“Ma mio caro Signor Bianchi, la miglior terapia, per la sua brutta ferita da caduta per le scale, è la magica polvere alfa: la metta sopra 2 volte al giorno e vedrà che risultati brillanti; innanzitutto la ferita non butterà più quel fastidioso liquido che le macchia i pantaloni e poi si formerà una “splendida” crosta dura e secca che darà tante soddisfazioni, vedrà che bel risultato quando la crosta cadrà – se cadrà….”. Parole del Dr. WZ

Ho voluto cominciare questo articolo con delle perle di saggezza che i poveri pazienti sono costretti ad ascoltare quando desiderano abbeverarsi alla fonte delle conoscenze mediche: il dottore.

Premesso che le mie considerazioni sono del tutto generiche e non sono rivolte a nessuna categoria medica in particolare, mi preme sottolineare come nel 2016 alcuni esimi Colleghi possano avere una visione del processo di guarigione talmente “arcaica” che bisognerebbe controllare la loro carta di identità per rintracciare l’anno di nascita e “forse” trovare una giustificazione alle loro asserzioni; dico forse perché il vero compito del medico è l’aggiornamento scientifico continuo e puntuale al fine di svolgere la sua missione in maniera più precisa e aderente alle esigenze terapeutiche del paziente.

Riprendendo quest’ultimo concetto (esigenza terapeutica) di domanda di cura, mi piacerebbe incontrare dei Colleghi che confrontandosi con una lesione cutanea complessa, ammettessero la loro insufficiente competenza in materia e indirizzassero il paziente verso un percorso terapeutico più congruo e foriero di risultati tangibili, se non altro in nome delle evidenze scientifiche e delle linee guida. Invece alcuni Colleghi, di fronte a ferite complicate, pontificano e consigliano medicazioni desuete e incongrue allo scopo di “asciugare e seccare” la lesione, dimenticando (o meglio non conoscendo proprio…) che i Cheratinociti si muovono “scivolando” e che sul cemento non si scivola…

Così mi trovo, mio malgrado, sollecitato da amici e Colleghi ma soprattutto da prescrizioni mediche incomprensibili, terapie locali dannose, racconti incredibili di pazienti, immagini di ferite con medicazioni assurde, a cercare di fare chiarezza, in modo semplice e diretto, sull’argomento per coloro che sono interessati primariamente alla salute dei pazienti e secondariamente all’arricchimento del proprio bagaglio culturale.

La giusta umidità locale è una condizione essenziale per la guarigione di una ferita, se è passato il concetto che il Cheratinocita (cellula dell’epidermide in grado di migrare) “pattina” solitamente dalla periferia verso il centro della lesione, esso non è comunque l’unico fattore che interviene nel processo di guarigione.

Le cellule migrano se sono messe nella condizione di farlo: il corretto microclima di una ferita e anche il suo pH (grado di acidità o alcalinità) agiscono attivando una serie di attori e mediatori fondamentali per arrivare a realizzare il terreno idoneo per la “migrazione” cellulare. Cerchiamo di riassumere brevemente e in modo chiaro la serie di eventi, a livello della ferita, che un ambiente acido e correttamente umido riesce a scatenare.

Nell’ottica della riparazione tessutale, nel microclima della ferite svolgono un ruolo strategico i seguenti interpreti: il valore del pH, la concentrazione delle Metalloproteasi (MMPs), il livello di attivazione dei sistemi di ossido-riduzione (Inos e Ros) e l’entità della carica batterica. Queste quattro variabili sono strettamente correlate e l’oscillazione del loro peso interferisce in modo positivo o negativo sull’andamento del processo di guarigione della ferita.

Un esempio paradigmatico è rappresentato dall’intervento delle MMPs nella cascata riparativa: le proteasi infatti sono responsabili della corretta formazione e stabilità della matrice extracellulare degradandone la parte imperfetta o esuberante; facilmente intuibili saranno gli effetti abnormi, sul fine meccanismo della guarigione, prodotti da un’attività proteasica eccessiva e incontrollata: infiammazione locale persistente e incapacità di progressione verso lo stadio proliferativo. I complessi sistemi di ossido-riduzione, talora sottovalutati e poco studiati, svolgono allo stadio fisiologico di attivazione una funzione molto positiva poiché promuovono l’espressione di geni che sintetizzano molecole ad azione antiossidante e partecipano alla difesa antimicrobica; un eccesso di attivazione dei sistemi Inos-Ros conduce verso una flogosi tessutale cronica, l’arresto dell’attività riparativa e verso al degenerazione del tessuto neoformato.

I valori del pH e della carica batterica sono due fattori interdipendenti, un’elevata colonizzazione batterica determina una consistente degradazione tessutale (atteggiamento predatorio dei microrganismi) e l’aumento dell’Ammonio prodotto dalle Ureasi provoca un innalzamento del pH; l’aumento di quest’ultimo rallenta l’azione dei macrofagi, attiva le proteasi batteriche e manda in tilt i meccanismi fisiologici di killing batterico con conseguente ulteriore sviluppo della carica microrganismica. Il continuo degradarsi della matrice extracellulare, la permanenza di una carica batterica attiva, l’alcalinizzazione del microambiente e il cattivo funzionamento dei processi di ossido-riduzione portano alla cronicizzazione della lesione cutanea che verrà definita, dopo un certo numero di settimane, “non healing”.

La presenza batterica si rimodulerà su di una organizzazione “ad hoc” che definiamo Biofilm, tale ristrutturazione non presenta solo una diversa architettura ma soprattutto un diverso atteggiamento funzionale più adeguato alle mutate condizioni locali; il Biofilm abbandonerà il carattere predatorio dei singoli componenti per assumere quello parassitico dell’intera organizzazione batterica neoformata.

Le difficoltà del Vulnologo nell’assestare una terapia idonea cominciano quando nella ferita cambia la Sociomicrobiologia, frutto delle mutazioni del Ph, dell’umidità, delle proteasi e dei sistemi di ossido-riduzione. Il paradigma “planctonico” lascia il posto al Biofilm che ha un comportamento subdolo e non aggressivo: l’organizzazione strutturale e il suo ciclo vitale sono mirati alla resistenza ai biocidi e agli antibiotici. Lo scenario è cambiato e le nostre armi –seppur tecnologiche- sono invece apparentemente le stesse: si profila una sconfitta di dimensioni epocali…

“Thinking outside the box”, la metafora cara a Steve Jobs, può venirci in soccorso: smontare il puzzle e rimontarlo pezzo per pezzo, questo è il segreto terapeutico; entrare nel “box” e cambiare le regole di montaggio del puzzle. In sintesi la strada maestra non è cambiare il tipo di medicazione ma cambiare il microclima della ferita, solo così potremo coltivare qualche speranza di tenere testa alla suprema intelligenza delle forme di sopravvivenza orchestrate dalla natura.

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